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Lo chef
Nasce in Belgio nel 1903, famoso ai più per essere il padre di Jules Maigret. La prolificità di Simenon è leggendaria: fino a 80 pagine al giorno, trasformate in centinaia di opere fra romanzi e racconti, è uno degli autori più tradotti del mondo. Comincia a scrivere da adolescente, nel filone del giornalismo, solo nel suo periodo parigino si immerge nella narrativa. È proprio il commissario francese da lui inventato a consacrarlo alla fama, nonostante i tantissimi pseudonimi (decine) usati negli anni precedenti per pubblicare. C’è poco giallo nei suoi gialli, lasciando molto più spazio ai drammi di chi cerca di sbrogliare la matassa, ma viene comunque ricordato come uno dei più grandi giallisti. Avulso agli orpelli letterari, cerca sempre di smascherare i personaggi che egli stesso inventa, mostrandone la nudità.
Non si può dire che, durante la stesura delle sue innumerevoli opere, si sia annoiato: due matrimoni, svariate relazioni, e più di 30 residenze cambiate in giro per il mondo, fumatore accanito e forte bevitore. Lo amo.
Il cameriere
Toh, chi si rivede: Adelphi. Ci ha già serviti qualche tempo fa, e siamo qui con la consueta, totale fiducia verso il buon gusto del noto cameriere. Ci dice che ha sgraffignato la ricetta da un ben più nutrito banchetto. Lo chef infatti ha prodotto una quantità impossibile di scritti, così tanti da far insinuare che più di una persona fosse ai fornelli. Lo abbiamo già visto in passato, in altre occasioni: in questo ristorante, dove ad essere servita è una lettura, il cameriere ha molta più manovra della controparte meramente culinaria. E anche questa volta, Adelphi sceglie per noi un dipinto che incarni la storia. Se ne va in fretta, non serve alcun preambolo gastronomico per capire ciò che abbiamo davanti, chiunque è in grado di leggere l’Orologiaio.
Impiattamento
Nel pieno stile dello chef, la porzione è contenuta, niente di eccessivo, ma nemmeno così scarna da far borbottare il classico profano che per sbaglio capita nel ristorante stellato. Capiamo subito, tra quarta e prime righe, che la cornice della storia è un dramma familiare, con il Simenon giallista che, come fa spesso, si tiene in disparte.
Sapore
È simile in tutti i piatti di questo chef, i gialli puri esclusi: equilibrata delicatezza, che non stanca, un linguaggio elegantemente scarno, ma mai lubrificato, come si suole invece fare nei romanzi moderni. Simenon infatti non ha bisogno di sacrificare polpa narrativa nel nome di una chissà quale scorrevolezza, non ha il timore di annoiare il lettore moderno con il pensare, perché quasi mai ci si ritrova a guardare quante righe manchino prima del capoverso, non c’è pesantezza nel suo scrivere.
Consistenza
Dall’inizio alla fine del piatto, questa delicatezza ci prende per le papille, conducendoci fino alla fine senza affrettare il passo né risultare sgradevole nel suo incedere: così procede il filone del dramma familiare, con moltissimi tratti in comune con il noir, ma la spirale che conduce il protagonista verso la sua -almeno iniziale-disperazione non provoca angoscia, sentiamo invece la stessa rassegnazione dell’orologiaio a mano a mano che gli indizi si aggiungono alla pila sul tavolo, e il disperato desiderio di innocenza del figlio diviene la caricatura di se stesso: nel momento in cui cade la maschera, compare del tutto il tema della ribellione.
Simenon di certo non è uno sprovveduto, e sa bene che introdurre un tema simile soltanto alla fine sarebbe risultato troppo debole, una stonatura: ha cominciato quindi molto prima, con l’orologiaio che in uno dei suoi disperati excursus mentali nel tentativo di giustificare il figlio si ritrova a ricordarne la madre, colei che troppo presto egli ha deciso di chiamare moglie solo per spezzare l’opinione che il mondo aveva di lui. E così finisce il romanzo, con l’orologiaio contemplante una fotografia che comprende se stesso, il di lui padre e il di lui figlio, realizzando che lì non sono soltanto ritratte tre persone, bensì tre ribellioni, ognuna nata e morta a modo suo e con i suoi tempi, che le persone non sono orologi.
Retrogusto
Anch’esso rimane delicato, caduta la maschera e concluso il dramma viene istintivo chiudere il libro, per lasciare i protagonisti al loro ribellarsi e alla realizzazione di averlo fatto. Mi è piaciuto molto il tema, al di là del dramma, anche se all’inizio il collegamento fra le tre ribellioni mi è parso un po’ forzato.
Digeribilità
Simenon è così, pare mettano il bicarbonato di sodio già dentro il piatto. Il libro è di una scorrevolezza nobile, che deve se stessa allo stile e non alla scarsezza narrativa, quindi non potrebbe mai risultare difficoltoso ai visceri.
Peristalsi
Se devo essere sincero, non mi ha provocato particolari riflessioni. Sarà per personale inesperienza nei riguardi di certe situazioni di vita (sono giovane, oh!) ma mi sono sentito un osservatore esterno, seppur coinvolto, e la peristalsi si è limitata ad un ammirato sospirare ricordando come Simenon scriveva. Lui e le sue 6000-8000 parole al giorno, lui e i suoi romanzi finiti nel corso di un paio di settimane. Un dettaglio del piatto non riuscirò mai a scordarlo, credo: la pipa aggiustata col fil di ferro, sibilante con la sua sutura malfatta, chiusa nella casa di un amico che parla poco e ascolta sempre. Ahh, sto ricominciando a fare la fangirl, meglio chiudere qui.
Ciao!