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L’uomo vestito di nero – Recensione di Peristalsi Narrativa

Da questa recensione in poi, il format cambia. L’esperimento su Instagram, molto ben accolto da me e dai miei due profili falsi (paragonare per esteso la lettura di un libro al processo digestivo) mi ha intrigato. Tutti fanno recensioni su tutto tramite format più o meno simili, questo mi sembra atipico e quindi giocoforza interessante. O forse, più probabilmente, trovo troppo divertente il sottinteso dietro a una recensione così: se il libro va digerito per parlarne, la recensione è feci e metano. Non ce la faccio, infantile finché vorrete, però mi cappotta dalla sedia.

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Lo chef: Stephen King

Classe ’47, americano. Più di ottanta opere dal ’74 ad oggi. Morbillo, otopatie e amenità simili lo mettono davanti alla scrittura durante una lontananza forzata dalla scuola, in prima elementare. Legge, va al cinema, in una soffitta – ironicamente – scopre H.P. Lovecraft e l’orrore fra le parole. Poca roba fino all’università. Lì conosce l’amore della sua vita, si abilita all’insegnamento mentre lavora per mantenersi, e ha già scritto diversi romanzi mai pubblicati. Carrie, l’esordio vero, arriva nel ’74, e l’edizione economica sbanca il milione di copie: King è uno scrittore anche agli occhi del mondo, adesso, e lo fa per vivere. Segue un successo dopo l’altro, passando per un cimitero pieno di animali e un clown che lo scruta impensierito, fino al cancro che divorerà la madre. Inizia una dipendenza da coca e alcol che non incide sulla sua creatività, ma la moglie e gli amici lo prendono in tempo. Durante gli anni ’90 scrive in modo impossibile, più di dieci opere fra raccolte di racconti e romanzi. Il furgoncino di un incidentato cronico travolge via la sua disciplina scrittoria nel 1999, ma essa è lesta a ritornare, e in meno di un anno torna alla scrivania. Dal 2000 non ha più preso pause. L’infanzia, l’orrore, il rapporto col padre sono temi che affronta abitualmente e con brutale, ruvida maestria.

Il cameriere

Sperling&Kupfer, come sempre per questo chef. Arriva con un piatto piccino, o è un antipasto, o è stato scelto così per far sembrare la storia più grossa. Per nostra fortuna, è la prima: niente interlinea 60 e carattere 14, no, non è da King. Le pagine non sono molte, ma la versione che ho letto io – illustrata da Ana Juan e tradotta da Silvia Fornasiero – è comunque ben nutrita. E costosa, ma parliamo di King, lo sapevamo quando abbiamo preso posto al ristorante. Sperling sorride, questa è una ripubblicazione di uno scrittore famoso quindi suppone che o siamo habitué, o qualcuno di importante ci ha raccomandato il loco. Entrambe, nel mio caso, e il piatto arriva.

Impiattamento

Dalle sue fumose cucine, lo chef ha scelto la forma di un racconto. Viene definito così sia perché lo è per struttura narrativa, sia perché i commensali più intramontabili sono abituati a svalangate di pasta quando vengono qui, ossia piatti enormi (It, e via dicendo). Definendolo racconto da subito nessuno si lamenta, e chi si siede compra il nome scritto in gigantesco su ogni piatto, prima ancora del contenuto.
Ruotando il piatto per ammirare la composizione, notiamo più cose: l’espediente narrativo per cominciarlo è quello di un vecchio che racconta di qualcosa accaduto quando aveva 9 anni, nel 1914. Questo ci rivela subito che la storia lo ha segnato, perché la ricorda, e non lo ha ucciso, perché sta raccontando. Qualche altra riga per non risultare acerbo alla bocca, e comincia.

Sapore

Come sempre con questo chef, ci viene consigliato di partire dal contorno. Il contesto viene prima presentato in contrasto con la modernità in cui viviamo sia noi che il vecchio, e poi reso reale da qualche fatto locale.
Prima nota pungente del piatto: in pieno stile King, viene presentato un elemento disturbante che avrà poi un ruolo nella narrazione; nel piatto di oggi è la morte accidentale del fratello del protagonista per uno shock anafilattico da puntura d’ape.
Proseguiamo, il cibo ora invade la bocca, e sentiamo altri due sapori prima ancora della consistenza: un elemento di foreshadowing (Prometti, Gary, che non andrai a pescare oltre alla biforcazione del torrente?) e un altro disturbante (il cane che rifiuta di seguirlo). Adesso si mastica.

Consistenza

Si scioglie in bocca, e in fretta. Biforcazione superata, qualche pesce nel cestino, un pisolino sull’erba, in 3 pagine siamo già al titolo: arriva l’uomo vestito di nero, ma anticipato dall’elemento disturbante. Un’ape, accompagnata dal timore di morire come il fratello, è sulla punta del naso di Gary. L’uomo in nero la uccide con un gesto, e King ci delizia con una similitudine che ritengo fra le sue migliori: gli occhi dell’essere sono come i piccoli oblò di mica sui portelli delle stufe.
Il boccone è finito, ne mancano forse altri tre o quattro prima che finisca anche il piatto. Così, sapendo che si legge in un’oretta a star larghi, ci abbuffiamo. Come succede spesso nei romanzi di King, l’elemento disturbante – l’ape, qui, o il tradimento di una moglie in Pet Sematary, etc. – si ripresenta in un modo che sembri reale per il protagonista. Il Diavolo dice a Gary che la madre è morta come il fratello, uccisa da un’ape, rafforza la sua argomentazione in modo logico e inquietante. Poi lo vuole uccidere, e King nella sua maestria non scade in una fuga immediata, no, il Diavolo si accontenta di una delle trote. Gary scappa e il racconto vero finisce qui, il resto è retrogusto.

Retrogusto

Sappiamo già che il sapore non inseguirà Gary, fermandosi alle papille gustative in bocca, mentre l’ultimo boccone scende per l’esofago. Rimane un retrogusto forte, vivo quasi quanto il sapore che lo precedeva, perché ci viene confermato che il Diavolo era lì, sul torrente, con due mezzi: la madre del bambino non era morta (quindi era un tentativo di ingannarlo per mangiarlo) e il padre, tornando con lui ad un torrente ormai deserto, vede a sua volta i segni della presenza dell’uomo vestito di nero (e quindi non era una fantasia da bambini, era vero). Questo rende il retrogusto persistente, forte, ma il piatto è finito in fretta, e in breve laviamo via tutto con un sorso d’acqua.

Digeribilità

Semplice, nessun disturbo neanche per i più gastroenterologicamente delicati. Veloce come è stato masticarlo, così il racconto si digerisce, liberando lo stomaco. Non ci sono incongruenze, decisioni un po’ forzate per amor di narrazione, niente. Un piatto semplice ma fatto da una nonna veterana.

Peristalsi

Il racconto non lascia molto. Siamo lì col piatto vuoto che cerchiamo di attirare l’attenzione di Sperling per chiedere il conto, e a parte un leggero senso di inquietudine – obbligatorio dopo uno scritto di King – non c’è stato il tempo per lo chef di titillarci le papille abbastanza a lungo. Veloce il pasto, veloce la capatina gastrica, veloce la peristalsi. Il formato lo rendeva però appetibile da subito, perché si mangia sul serio in un’ora, e non impegna intellettualmente. Un racconto ottimo, forse non il migliore di King secondo molti, ma è tecnicamente inattaccabile e ben congegnato. Da rileggere.

Ciao!

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